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Il vento del protezionismo sullo sport italiano. Rugby al bivio. Acquisire una logica imprenditoriale.

Roma 5.12.2008 (corsera.it) Mi viene da leggere sui quotidiani che lo sport ha una sua “ vera specificità”. Penso che si tratti di una filosofia protezionistica elaborata per contrastare il professionismo e il libero mercato nelle attività sportive. E credo di non sbagliarmi se alfiere del protezionismo sia Mario Pescante il vecchio tutore di tematiche superate dall’incalzare di una società in continua evoluzione. Imbrigliare lo sport, ossidarlo, appare patetico. Vuole il Pescante che lo sport non entri del tutto nella logica imprenditoriale, magari che ne rimanga ai margini.

 

Lo sport non abbia il carattere del profitto aziendale e gli atleti non siano paragonati ai professionisti dai colletti bianchi. L’ottica di questa pretesa è di frenare la presenza di troppi stranieri nei club a discapito dei talenti indigeni in fieri e quindi della nazionalità dello sport  che si manifesta negli incontri internazionali e in particolare nei giochi olimpici. Il professionismo cozza contro questa visione, perché gli atleti professionisti si possono spostare liberamente sul mercato condizionato dalla domanda e dall’offerta. Né i club possono rinunciare alla logica aziendale. La nazionalità sportiva ne soffre. Nel rugby, come nella scherma, il vento del professionismo e del profitto, sta spazzando via gli schemi organizzativi su cui si sono posizionate finora le due federazioni. In crisi oggettiva si trovano entrambe. La federrugby è in un momento di transizione che dovrebbe risolversi con la realizzazione di una associazione di professionisti, un club privato, gestito direttamente dalla stessa federazione, assumendo il ruolo di datore di lavoro. E’ indubbiamente una rivoluzione, così come si sta palesando nella scherma. Il club così costituito parteciperebbe alle più importanti manifestazioni internazionali che si svolgano all’estero e in Italia. Il rugby italiano è un’azienda che riesce a fare utili solo se partecipa come squadra nazionale alle competizioni di prestigio. Il problema da risolvere è che le prende quasi sempre. Occorre allora invertire la tendenza . Il club di professionisti pagati dal datore di lavoro federale è la soluzione giusta. I migliori giocatori italiani se ne vanno all’estero attirati dalla spettacolarità dei campionati stranieri e dalle migliori offerte contrattuali. Il nostro campionato maggiore non regge al confronto né sul piano dello spettacolo, né su quello economico. Un club privato, chiamatelo nazionale, che non è più la nazionale nel suo significato stereotipato. La rivoluzione prospettata urta contro le società sportive. Il problema da risolvere è come inserirle in un progetto che  indubbiamente finisce per limitare il rischio d’impresa degli imprenditori  che si riflette negativamente sul campionato nazionale. Già adesso le società sportive non sono nelle condizioni di competere con  le società straniere che offrono contratti molto più consistenti. Il problema è comunque risolvibile se le società  compartecipassero al progetto ricevendo in cambio un incentivo economico che sia apprezzabile per compensare il rischio d’impresa nell’investire nello sport del rugby.

Renato Corsini.

 

 


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