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CORSERA LUCA CORDERO DI MONTEZEMOLO LETTERA APERTA AL CORRIERE DELLA SERA

Caro direttore, siamo tornati pienamente al copione della Seconda Repubblica. In vista della legge di Stabilità, destra e sinistra si dividono su ogni cosa, tranne sulla difesa di Province, finanziamento pubblico ai partiti, legge elettorale e una generica richiesta di allentare i cordoni della borsa. Nel settore privilegi e abusi la grande coalizione funziona magnificamente da vent'anni e più. Il ministro dell'Economia in questa condizione non può che difendere i saldi di bilancio fino alle dimissioni. Andando avanti di questo passo il rischio paralisi è più che concreto. Le uniche vie d'uscita sono dunque una nuova, inutile, stagione elettorale dagli esiti incerti e potenzialmente disastrosi, o un rilancio dell'azione dell'Esecutivo che spazzi via alibi e condizionamenti. Proverò a ipotizzare un modo per intraprendere questa seconda strada. Occorre un piano straordinario e di ampio respiro (un piano industriale, si direbbe in un'azienda), che parta dall'unico vero obiettivo in grado di salvare il Paese, far ripartire la crescita attraverso uno shock di competitività. La politica dei rattoppi ha fatto il suo tempo. Per inquadrare il problema e trovare le soluzioni dobbiamo spazzare via i falsi miti e le figure retoriche di una discussione sulla crescita che finora si è dimostrata sterile. La stagione dei tagli lineari della spesa pubblica si è conclusa con un fallimento. La spesa è aumentata costantemente e l'efficienza delle politiche pubbliche non è migliorata. Bisogna prenderne atto e da oggi in poi cambiare approccio, mettendo al centro dell'azione dei ministri la responsabilità sulla gestione dei propri dicasteri, con obiettivi misurabili e il massimo di trasparenza sul loro raggiungimento. Deve finire la pessima abitudine per cui i ministri hanno sistematicamente delegato la responsabilità della gestione ai burocrati, concentrandosi solo su nuove iniziative, per un mero ritorno mediatico. Questo percorso di riqualificazione della spesa sarà lungo e difficile, anche perché implica riforme amministrative e, in alcuni casi, costituzionali. Ciò non vuol dire che non vada urgentemente intrapreso con grande determinazione, perché solo per questa via si può arrivare al vero risanamento, anche etico, del Paese. Secondo punto. Non ci sarà nessuna ripresada agganciare se non metteremo in campo risorse consistenti per gli investimenti e soprattutto per diminuire le tasse su imprese e lavoro. Confindustria valuta in 10 miliardi il minimo necessario per un taglio del cuneo capace di avere un qualche effetto sull'economia. Credo che questa cifra sia sottostimata. A ciò aggiungiamo che due dei nostri principali concorrenti (Giappone e Usa) stanno da tempo portando avanti massicci piani di incentivi alla crescita, inondando di denaro il proprio sistema produttivo. Nel giro di due anni, non solo l'Italia, ma anche altri paesi d'Europa, si troveranno fuori mercato in termini di competitività. Le conseguenze saranno particolarmente pesanti da noi, a causa di una base industriale già falcidiata dalla crisi. A quel punto sarà venuto meno il fulcro su cui fare leva per risollevare l'Italia.Terzo: è semplicemente illusorio pensare che in questa situazione il Paese possa rispettare gli impegni presi sulla riduzione del debito. A situazione invariata il debito continuerà a crescere per inerzia, fino ad arrivare a un punto di non ritorno, di cui ci accorgeremo solo con la prossima crisi finanziaria globale. Agganciare la ripresa adesso deve diventare il nostro unico obiettivo. Per farlo bisogna agire su più fronti e con provvedimenti articolati inseriti in un unico piano coerente, misurabile e credibile. Inizio dalle proposte più controverse. Occorre operare un taglio del cuneo fiscale e dell'Irap per 20 miliardi di euro. Insieme alle residue coperture da reperire per i provvedimenti già varati dal governo, questo vuol dire aumentare il deficit di circa un punto e mezzo di Pil. Il rientro di questo deficit in eccesso dovrà essere assicurato da tagli di spesa, non lineari, a regime in quattro anni e dalla maggior crescita che dovrebbe derivare dall'abbassamento delle tasse. Sia chiaro, nessun aumento del deficit potrà essere proposto per altro motivo che non sia diminuzione della tassazione su lavoro e imprese. Lo Stato non dovrà avere in nessun caso la disponibilità di altre risorse da sperperare in interventi pubblici improduttivi. Bisogna procedere contestualmente all'implementazione del piano "Bancoro", delineato da Quadrio Curzio e Coltorti, per valorizzare le riserve auree in eccesso di Bankitalia e ridisegnare l'azionariato dell'Istituto. Questo piano avrebbe il duplice effetto di ripatrimonializzare il sistema bancario, mettendolo in grado di riattivare il credito alle imprese, e di generare un significativo introito per lo Stato da destinare agli investimenti. Perché questi provvedimenti siano presentabili ai nostri finanziatori e all'Europa dovremmo però prevedere altre due iniziative da varare contestualmente: l'emanazione di un decreto legge su concorrenza, liberalizzazioni, semplificazioni e mercato del lavoro, e il trasferimento immediato in un veicolo ad hoc di tutti i beni e le partecipazioni pubbliche (locali e nazionali) da dismettere. Questo piano può essere portato avanti solo se preso nella sua interezza, se condiviso da tutte le forze politiche e sociali e infine cristallizzato in un patto di maggioranza. Se i sindacati si opponessero a una modernizzazione del nostro sistema contrattuale, il piano non potrebbe vedere la luce. Stessa cosa accadrebbe se gli enti locali rigettassero il percorso di dismissione degli asset in loro possesso. Le tensioni politiche di una grande coalizione possono trovare una composizione solo nell'ambito di un progetto di grande ambizione, la capacità di mediazione non è un collante sufficiente. Senza un sistema paese compatto non potremmo avere dalla nostra parte l'Europa e i mercati, che dovranno sostenere questo piano e coprirci il fianco sul versante del debito. Anche per questo ogni retorica antieuropea va bandita. Dire chiaramente che siamo in questa situazione per colpa nostra è la premessa per essere credibili. Ma se i nostri partner europei fossero tentati di voltarci le spalle, dovremmo farli riflettere sul fatto che di questo passo, prima o poi, saranno obbligati a compiere interventi ben più dolorosi per assicurare la tenuta dell'euro. Voglio chiudere con una nota positiva. L'andamento delle nostre esportazioni dimostra che c'è il terreno su cui costruire il rilancio del Paese. Tra mille contraddizioni si è aperta una nuova fase della globalizzazione che riporta la produzione in Occidente e fa crescere i consumi in Oriente. E' il dividendo di anni di sacrifici. Non c'è un paese che più dell'Italia potrà beneficiarne. Dobbiamo solo tornare a dare valore alle cose che ci hanno fatto grandi: lavoro, cultura e impresa.

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